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La storia della coltivazione della vite nel territorio del Piave dalla vite maritata alla bellussera (prima parte)

La storia della coltivazione della vite nel territorio del Piave dalla vite maritata alla bellussera (prima parte)

Se guardassimo una vecchia fotografia delle terre del Piave risalente ad un paio di secoli fa, vedremmo un paesaggio vitato molto diverso da quello odierno. In questo territorio a partire dalla fine del ‘600, la forte densità abitativa richiedeva il massimo sfruttamento della proprietà terriera per sopravvivere e questo influenzava molto anche il paesaggio.

Dal tardo Medioevo -ma sicuramente anche in epoca romana e preromana- e fino alla fine del 1800, in tutto il centro-nord Italia la vite era allevata “maritandola” ad un tutore vivo, a comporre dei filari ai bordi della proprietà o a dividerla in appezzamenti il più possibile regolari, destinata a colture cerealicole o a prato. Questo sistema prende il nome di “alberata”, cioè un solo albero su cui far crescere una o più viti, oppure “piantata” quando con la stessa tecnica crea una sorta di filare.

vite maritataIl sostegno per la vite era in ogni caso sempre un albero, e poteva essere un acero, un frassino, un ciliegio, un salice, un gelso oppure un pioppo. La scelta veniva fatta con attenzione in funzione del luogo, se in collina o in pianura, o del tipo di terreno, umido o secco, oppure delle esigenze familiari. Ogni terreno accoglieva più volentieri un tipo botanico piuttosto che un altro, in perfetta simbiosi tra di essi, garantendo altri preziosi vantaggi che dalla pianta potevano essere tratti, come ad esempio il materiale per legare i tralci, il legno per uso diversi, il nutrimento per i bachi da seta, o semplicemente un andamento di crescita che facilitava la buona maturazione delle uve.

Le viti erano maritate in numero da una a tre per albero, e posizionate a distanza da venti o trenta centimetri da questo. Per i primi 4/6 anni la pianta cresceva liberamente e poi era obbligata ad una potatura ordinaria, che prevedeva la presenza di due o tre lunghi tralci, attorcigliati tra loro e legati con quelli della vite laterale più vicina a formate dei festoni. Le file di piante maritate segnavano i confini della proprietà dei campi con linee geometriche che conferivano ordine e armonia al paesaggio creando delle suggestive quinte scenografiche come testimoniano alcuni dei molti autori che tra il ‘700 e l’800 raggiunsero l’Italia viaggiando attraverso alcune grandi regioni d’Europa, un viaggio che serviva a formarsi e farsi accettare nei grandi circoli letterari.

goethe altGoethe ad esempio scrisse nel suo “Viaggio in Italia…la strada che da Verona conduce a Vicenza è assai amena, larga dritta e ben tenuta. Si vedono lunghe file di alberi e intorno a questi sono ravvolti i tralci delle viti che ricadono in giù. Le uve mature premono sui tralci i quali vacillando, cadono penzoloni.

Le viti erano coltivate obbligatoriamente in coltura promiscua e tra le fila poteva esserci il prato, oppure qualche coltura intercalare, talvolta legumi, ma prevalentemente cereali. Vigeva infatti la regola “dei tre campi”, per cui l’intero appezzamento veniva suddiviso con le alberate in tre parti, di cui una coltivata a mais per ottenere la farina per la polenta quotidiana, le altre due a frumento. Questo serviva a pagare l’affitto oppure a saldare il contratto di mezzadria, il quale prevedeva sempre il conferimento di una quota di uva o di vino, assieme a una certa quantità di frumento, nonché la decima ed il quartese alla Chiesa. Il rimanete poteva dare un piccolo reddito al coltivatore, oltre a un po’ di farina per fare il pane e variare la dieta.

Accanto a mais e frumento la vite consentiva, dopo i dovuti conferimenti, un minimo d’introito in denaro e una qualche fonte di energia calorica a sostegno delle fatiche nei campi. Una simile consociazione aveva però degli effetti negativi quali la competizione nutritiva e idrica che il sostegno vivo e i cereali esercitavano a sfavore della vite e la sottrazione di radiazione solare che la chioma arborea procurava. Inoltre il lavoro con l’aratro non poteva essere fatto troppo vicino all’albero e ciò obbligava il contadino a faticose operazioni di zappatura per mettere a coltura anche questa porzione di terra e garantire la sopravvivenza della vite.

10480035 10203244415024695 2001293588 nA seconda della morfologia del sito, pianeggiante o collinare, la viticoltura era caratterizzata da tre diversi sistemi colturali; il ronco arborato vitato (tipico della collina) che prevedeva la tipica gradonatura del sesto di impianto, l’aratorio arborato vitato con alberi orientati parallelamente al lato maggiore del campo, per favorire la lavorazione della parte seminata, con distanze di almeno 10/12 metri tra i filari e 3/5 tra una pianta e l’altra nello stesso filare. Ed infine il prato arborato vitato (tipico della pianura) con distanze simili al precedente.

Le alberate sono state l’elemento che maggiormente ha caratterizzato il paesaggio della pianura del Piave fino all’800, il cui vero artefice è stato il lavoro manuale. Un sistema arcaico, poco soddisfacente ma obbligatorio. Si pensi che già negli estimi del ‘500 si legge come l’arativo piantato vitato, nella pianura del Piave e dell’Opitergino, fosse il metodo più diffuso della coltivazione dei terreni, occupando mediamente almeno il 60-80% delle superfici agricole e arrivando anche a valori superiori.

Se nell’800 il vigneto specializzato era inesistente, la piantata e l’alberata erano così poco razionali da un punto di vista produttivo, che Carpenè e Vianello, grandi luminari della Scuola Enologica di Conegliano, nel 1874 stimarono che un superfice di 22 ettari di coltura promiscua fossero pari ad un solo ettaro di coltura vitata specializzata.

(segue…)

Pia Martino
 

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